Pagina:Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825 II.pdf/294

290 LIBRO DECIMO — 1821.

lamentando le buone leggi quasi ad un punto fatte e distrutte, e la sperata nazionale felicità appena tentata ed oppressa.

Così che volendo rappresentare ne’ miei racconti la scena continua del popolo, non ho parlato di quelle leggi allorchè inavvertite passavano, e disegnai di trattarne in questo loco, cioè quando furono intese e compiante.

A rifare ed a migliorare le instituzioni gareggiarono il ministero e il parlamento. Ho riferito nel precedente libro i mali prodotti dal genio delle novità; qui dirò i beni, godendo a laudare le geste e gli uomini meritevoli. Il duca di Campochiaro fu ministro degli affari esteri. Destreggiò colle corti nemiche, ma non val destrezza dove soperchia la contraria forza: nulla ottenne, lasciò il ministero, Gli successe il duca del Gallo, che ne’ consigli e nelle opere fu sagace, fido e anch’egli sventurato: nelle grandi quistioni di regno, accompagnando il re a Laybach, riferendo in parlamento, consultando nel congresso de’ ministri, fu per i partiti più liberi ed animosi. Pure lo morse la maldicenza, mostro cieco e rabbioso, nato di plebe, peste d’Italia.

Fu ministro di giustizia il conte Ricciardi, già chiaro sotto i regni di Giuseppe e Gioacchino. I codici non abbisognavano di riforma; e si sperava tempo più riposato per discutere ogni legge; perciò provvide a’ bisogni presenti della giustizia: vide che l’era intoppo la setta de’ carbonari, e due volte ne propose lo scioglimento, ma invano; però che si opponevano al buon disegno la timidezza de’ principi, la timidezza o le affezioni dei deputati al parlamento, il numero e la potenza dei settarii. Indi propose la ricomposizione de’ magistrati, però che ve n’era degl’inabili alle instituzioni moderne, o incalliti alle passate, o troppo grandi di età, o scelti senza merito, per favore, quando la casa de’ Borboni tornò a questo regno. Dimostrato il bisogno della riforma, ne provò la giustizia; perciocchè i magistrati erano tuttora amovibili, a piacimento del re, difetto de’ precedenti anni, come altrove ho detto, volto ad utilità nel presente. Quindi intese a riformare quella parte della costituzione, che dava al consiglio di stato la facoltà di nominare i magistrati: egli dimandava che l’avesse il ministro, lasciando al consiglio l’approvazione o il rifiuto de’ proposti. E benchè parlasse a suo pro, il chiaro dire, il buon volere, la verità, la probità dell’oratore, vinsero il sospetto e la invidia. Poscia per nominare i magistrali novelli o promuovere i nominati segnò modi giusti, liberi, e tanto certi quanto è concesso agli umani giudizii. E lode anche maggiore a quel ministro diede la proposizione dei giurì; voto antico e deluso de’ padri nostri e di noi. Rammentò i dubbii generali, e i particolari al regno delle due Sicilie, abbattè gli uni e gli altri. Proponeva i giurì per i soli misfatti, riserbando a più espediti giu-