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LIBRO DECIMO — 1821. 289

perciocchè niuna verità giammai comparve più vera delle finzioni di quei principi: scaltrezza cominciata per timore, durata per arte.

Ed altra cagione fu lo stato di Europa, la santa alleanza e con essa da necessaria adesione della Francia, la interessata pazienza della Inghilterra. Se tale non era il mondo, la rivoluzione di Napoli, cambiando in meglio, mantenevasi; però che ella stessa correggendo i proprii errori, il troppo di alcun potere, il poco di alcun altro si temperavano; che già per riuscire e durare ella aveva in sè due mezzi potentissimi: il tedio universale dell’antico, l’universal desiderio di mutarlo.

Questi che ho discorso furono gl’impulsi alle rovine di quello stato, secondati da pochi altri di minor possa che senza i primi non movevano, o tosto mossi quietavano. E sono l’ingegno fogoso e contumace del general Pepe, le doppiezze del deputato Borrelli, i mal ragionati concetti del general Carascosa, le mille licenze del popolo, gli ondeggiamenti e le debolezze di due ministeri, le varie timidità del parlamento. Senza queste spinte, che ho chiamato seconde, pure lo stato cadeva ma per precipizii più lenti ed onorevoli; lasciando alcuna speranza, e non, come avvenne, vergogna ed abbattimento alla Italia. La quale sentenza di non dubbia rovina, i caldi settatori de’ rivolgimenti contrastano con fatti di antiche genti, e co’ moderni prodigi della Grecia; senz’avvertire che le virtù della barbarie sono impossibili alla civiltà, e che nelle nostre guerre gli eserciti ed i popoli non hanno le condizioni di Sagunto, di Alessia, di Scio, di Messolungi, ossia le ultime necessità, feroci, orrende, ma feconde di quel maggior valore che nasce nelle disperazioni.

Il giudizio del volgo sulle cagioni del caduto governo era più stretto e maligno. Non altro che tradimenti: traditori i generali, i ministri, il parlamento: nulla incusavano il re, poco il vicario. Secondavano quelle voci, per nascondere la torpitudine de’ proprii falli, le numerose congreghe di settarii perfidi o vili, e di soldati infami della fuga, e di liberali e novatori codardi, e di timidi deputati, e d’impiegali bassi e servili. Tal che non rimase intatto alcun nome, già chiaro per virtù e servigi; e la ingiuria durerà ne’ discorsi della plebe e de’ tristi, come nella credenza di chi presta fede a quelle genti, sino a che, fatto libero il dire, la narratrice delle umane cose avrà rilevato de’ veri fatti le cause vere.

II. E poi che furono scoperte o sospettate le cagioni, si misurò la vastità delle rovine. Ne’ nove mesi di quel reggimento i disegni del ministero, l’ingegno del parlamento, il senno del consiglio di stato, tutti i pregi del governo restavano inosservati, perchè coperti dal romore e dalle sollecitudini delle interne discordanze e della guerra. Ma dipoi, nel silenzio della tirannide, si andavano

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