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LIBRO NONO — 1820. 257

la segnò, fu poco appresso cagion di tumulto e di tristezza. Avvegnachè, pubblicato il trattato, si vide che alla ribelle città erano concedute, come patti di pace, le condizioni medesime ricusate (come preghiere) agli ambasciatori prima che cominciasse la guerra; quasi l’esercito napoletano fosse perdente non vincitore. Si aggiunse un foglio della città di Messina, diretto al parlamento ed al vicario, segnato da molti più noti cittadini, che diceva: «Il benefizio di unire in uno stato le due Sicilie non è inteso che da pochi sapienti; ma la comune de’ Siciliani, ricordevole delle ingiurie patite da’ Napoletani, e vaga del nome d’indipendenza, credendo libertà l’esser sola, pronunzierà nell’assemblea generale la lusinghevole separazione. Quindi Palermo sarà capo di questo regno, la città ribelle avrà trionfato; noi, perchè città fedeli, nemiche a lei, saremo oppresse. Se voi tollerate, anzi se voi stessi fate infelice la fedeltà, chi mai più vi sarà fedele? E se la ribellione da voi vincitori è premiata, qual città non sarà ribhelle?» Sensi aspri, veri, minacciosi. I Napoletani a torme correvano le strade della città, biasimando quella pace, maledicendo chi la fermò, trasmodando in sospetti e voci di vendetta. Il vicario a quel romore vituperava anch’egli il trattato, ed il ministro Zurlo, autore delle istruzioni date al general Pepe, spedì tre messaggi al parlamento per dimostrare che il generale, di sua mente, le avea trasgredite. Allora nella sala del parlamento, piena di popolo, il deputato colonnello Pepe (diverso ai generali Pepe per patria, famiglia, animo, ingegno) parlò in contrario di quel trattato, pregò che fosse casso; propose che l'autore (o fosse il general Pepe, o fosse il ministro) si assoggettasse a giudizio; e che altro generale con nuove schiere andasse in Sicilia per ridurre le ribellate genti all'obbedienza. Quel parere, seguito dal parlamento, fu decretato dal vicario; l’arringa diede all’oratore fama e favor popolare e poco appresso sventure.

Il generale Pepe, rivocato, ebbe in premio dal re la gran croce di San Ferdinando, e dal vicario lodi e grazie; nè saprei dire se quel favore fosse verace o finto, per timore del nome, o per aggradire ai Palermitani, o perchè il contrasto al presente stato di Napoli giovasse alla politica, piacesse allo sdegno dei due principi. Il generale scrivendo al re, e pubblicando colle stampe lo scritto, rinunziò i ricevuti onori; perocchè, diceva, riprovata l’opera sua (la convenzione del 5 ottobre), non meritava premio l’operatore. Sensi onorevoli ed ammirati. A lui fu surrogato il general Colletta, che, arrivando in Palermo, levò il campo, sciolse la giunta di governo, disusò i nastri gialli, cancellò tutti i segni del passato sconvolgimento. Indi a poco nei paesi già ribellati fece dar giuramento alla costituzione di Napoli, ed eleggere i deputati al parlamento

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