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256 LIBRO NONO — 1820.

guerra scemavano, era il vivere ora profuso per saccheggi, ora mancante per disordini; le casse vuote, i soldati scontenti per insita ribalderia, e perchè tenuti sotto le mura, pazienti delle offese, inabili ad offendere, il campo mal collocato, le alture sguernite, la città non investita. I montanari, vista la lentezza de’ Napoletani, parteggiando per Palermo, scendevano a combattere; altre torme si radunavano alle spalle dell’ esercito; le navi per forza di vento si tenevano in largo mare, lontane dal campo. Soprastava il pericolo più ai vincitori che ai vinti. Giunti al campo i legati, avuta onorevole accoglienza, richiesero che si trattasse sulla nave inglese (il Racer) ch’era nel porto; e fu accordato. Era negoziatore per la nostra parte lo stesso general Pepe, che condusse con sè il general Campana e due uffiziali superiori dell’esercito; trovarono sul Racer i consoli austriaco e inglese, testimonii al trattato. Il secreto, l’ingegno, l'arte, gli usi di diplomazia si trasandarono; non era esame o negozio, ma discorso; nè pareva che si trattasse delle sorti future di due regni. I negoziatori siciliani chiedevano, il Napoletano concedeva; e sol talvolta, dubbioso de’ suoi poteri, dimandava scopertamente se la inchiesta trovava impedimento nelle istruzioni del governo, facendosi vanto di non averle mai lette. Si racchiudevano in un foglio di tredici articoli, che per importanza erano le norme di quella guerra, e per brevità non facevano tedio alla pigrizia.

Si fermò (a’ di 5 ottobre): pace; libertà delle milizie napoletane imprigionate nella rivoluzione; cessione a noi dei forti della città, le armi dei ribelli deposte, l’autorità del re obbedita, le statue rialzate. E per l’altra parte, la convocazione in assemblea generale dei deputati delle comunità (uno per ognuna dell’isola), per decidere a maggioranza di voti della unità o separazione dallo stato di Napoli: in ogni caso, costituzione della Sicilia la costituzione di Spagna, e re, il re di Napoli; il governo della città, sino a che le sorti politiche dell’isola fossero incerte, commesso ad una giunta di Palermitani; le opinioni libere, sicure; i falli e delitti della rivoluzione, rimessi,

Appena scritto il trattato, entrarono in città due battaglioni di milizia napoletana preceduti dal principe di Paternò, che tra mezzo alla plebe faceva segni di vittoria per sè, di ludibrio per l’avversa parte, indicando con gesto plebeo la scempiatezza dei Napoletani. Erano artifizii e verità. Il popolo fra speranza e maraviglia fu cheto e muto, i castelli trovati aperti e senza guardia ebbero presidio napoletano, i prigioni furon liberi, molte armi esibite, tutte deposte, l'esercito accampò fuori della mura. Quell’anarchia, dopo vita lunghissima di ottanta giorni. fu spenta.

XXI. La resa di Palermo, allegra per Napoli quando il telegrafo