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254 LIBRO NONO — 1820.


XIX. Erano così meste le cose pubbliche, quando venne in parte a consolare un foglio del generale Florestano Pepe, con lieto annunzio: che più volte scontratosi co’ ribelli siciliani gli aveva vinti e fugati, prese le artiglierie e le bandiere, spinta e chiusa la rivoluzione in Palermo; che attendato con L’esercito nelle soprastanti colline, poteva torre le acque alla città, ma in carità ne concedeva sei ore al giorno; che dopo tre combattimenti occupava la Flora ed una delle porte, la Carolina, sì che l’entrata gli era aperta; ma il riteneva pietà dei Palermitani, nostri concittadini benchè ribelli, aspettando d’ora in ora la loro volontaria sommissione. La magnanimità del generale fu laudata, perchè indizio di forza, e perchè le azioni generose o feroci piacciono ai popoli; ma il re non se ne allegrava, o che lo rendessero indifferente le dubbiezze di regno, o che gli piacesse il prolungato contrasto alla napoletana rivoluzione. Altre nuove della Sicilia giungevano tuttodì, ed agli 11 ottobre pervenne il trattato di pace, ed il racconto degli ultimi fatti di quella rivoluzione; le quali cose riferirò partitamente.

Poi che i ribelli furono confinati nella città, cadute le speranze, suscitato il timore nei capi, arricchiti gl’infimi, bramavan tutti la pace, ma in scereto, giacchè nello impero della plebe le sentenze dissolute apportano lode, le oneste supplizio. Dell’universal desiderio si avvide il principe di Paternò, che dopo la popolar disgrazia del cardinal Gravina e la partenza del principe di Villafranca presedeva la giunta di governo. Paternò, ricco, nobile, ottuagenario, gottoso, vegeto ancora di animo e di mente, conoscitore astuto della sua plebe, convocandola nella piazza maggiore, le disse: «Palermitani, il nemico è alle porte, noi mendichiamo l’acqua dalla sua pietà, i viveri sono al termine; il ferro, la sete, la fame ci minacciano morte, mentre il pregar delle mogli, il pianger dei figliuoli e ’l consiglio dei padri ci discorano: nè fia maraviglia se tra poco, snerbati di forza e d’animo, crederemo ventura darci agli abborriti Napoletani colle nostre case, donne e ricchezze. Se un resto di virtù è ancora in noi, tentiamo le sorti estreme: ascoltatemi.

Il nemico ci propone la pace; e però ch’egli la vuole, a noi giova di rigettarla. Ho preso spazio di un giorno a rispondere per consultar con voi delle nostre sorti. ed ora dirò primo e libero il mio voto. Io propongo di ordinare a schiera tutti i giovani della città; escir dimani alla campagna; chiudere indietro le porte per non avere altro scampo che nella vittoria; cingere il nemico ed assaltarlo alle spalle ed ai fianchi, mentre i vecchi e le donne combatteranno dai muri; nè lasciar la battaglia che morti o vincitori. Saremo, lo prevedo, meno numerosi del nemico; mancheranno a noi l’uso e l’arte di guerra; ma ogni difetto suppliscono il coraggio, la disperazione la necessità. Io dovrei per vecchiezza