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LIBRO NONO — 1820. 253


Altra sollecitudine sopravvenne. La carboneria insino allora divisa in tante società, quante almeno le province, si strinse in una, sotto proprio reggimento, col nome di assemblea generale che componevasi da’ legati delle società provinciali. L’assemblea generale aveva un vasto edifizio nella città, sue leggi, sua finanza, suoi magistrati, ed un regolatore supremo col nome di presidente. Ella era sì potente che, spesso richiesta, soccorreva il governo, come fu al richiamo dei congedati, allo arresto dei disertori, alla esazione dei tributi fiscali, alla leva delle milizie, ad altri bisogni dello stato. Erano soccorsi e pericoli.

Ed aggravò le condizioni del regno la vita privata del general Pepe, che sceso dal comando supremo dell’esercito, senz’abito militare, senza pompa o segno di autorità, davasi argomento della caduta rivoluzione. Però tumultuando i partigiani suoi e i ribaldi, il governo, a mal grado, lo nominò capo supremo delle milizie civili, ufficio immenso e nuovo, pericoloso alla monarchia ed alla libertà. Quelle milizie, già molte, si accrebbero smisuratamente.

In quel mezzo il capo della polizia Borrelli, che ad un tempo era vice-presidente del parlamento, e come innanzi ho detto, dirigeva per suoi ministri la carboneria, disponitore di tante forze, vedendo in mano al re nel presente gl’impieghi e le ricchezze, o, nel possibile rovesciare di fortuna, le persecuzioni e le condanne, attese ad ingraziarsi ai principi coll’arte più valida sopra i timidi, atterrire e rassicurare. Finse che un Paladini, avvocato, e per natura impetuoso, congiurasse con altri ad imprigionare il re, il vicario, tutti della casa, menarli in Melfi, città forte della Basilicata, e tenerli guardati sino a che la rivoluzione di Napoli fosse riconosciuta da’ potentati stranieri. Fece chiudere in carcere il Paladini e i disegnati compagni, affermò che per documenti era chiaro il delitto, ottenne guiderdone di grazia dalla regia famiglia; e quando il giudizio ebbe liberato quegl’innocenti, egli fece credere ingiusta la sentenza, forzata per timore che i giudici avevano dei congiurati. Paladini, che lo accusò di calunnia, viste indi a poco peggiorar le sorti dello stato, con foglio pubblico dichiarò sè veramente innocente, Borrelli veramente calunniatore; ma non volendo aggiungere alle pubbliche inquietudini le private discordie, ritirava per amor di patria l’accusa, e rimetteva l’ingiuria e la colpa. Altre volte il Borrelli diceva al vicario stare in pericolo la vita di lui e del re, raddoppiava le guardie, accresceva i provvedimenti, concertava le simiglianze della verità, ed a notte avanzata con viso allegro andava in corte a rassicurare del pericolo superato i timidi principi. Quegli artifizii medesimi ordiva per gli amici del re, sì che il Medici, il Tommasi, l’Ascoli, il Sangro, ingannati e creduli, si tenevano debitori di vita al Borrelli.