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LIBRO NONO — 1820. 251

vacua la sala: sia che la maraviglia impedisse le voci, sia che ciascuno intendesse a scuoprire nel viso del re i secreti del cuore. Ma poichè si mostrò lieto e sereno, da mille e mille ripetuti evviva fu rotto ed emendato il silenzio. Egli, fatta riverenza all’altare, saluto al pubblico, sedè in trono, mentre alla manca sopra sgabello minore sedeva il vicario, e stavano in piedi ai suoi fianchi i grandi della corte e il general Pepe. Il cavalier Galdi presidente del parlamento, ed il più anziano dei segretari si avvicinarono al trono; il primo portando in mano il libro degli Evangeli, l’altro il giuramento scritto: ed il re, levatosi, prese la carta, pose sul sacro libro la mano, e ve la tenne finchè a voce alta ed intesa pronunziò il giuramento. E poi, rendendo saluti agli evviva del popolo, nuovamente sedè.

Il presidente profferì lungo discorso; e ’l re, di tempo in tempo affermava col cenno. Finita la orazione, il vicario si levò; e preso rispettosamente un foglio dalla mano del padre, lo lesse: conteneva i sensi del re, i suoi precetti al parlamento, le riforme ch’egli credeva necessarie allo statuto, il confine dei poteri del parlamento, o ’l proponimento di sostenere le ragioni della monarchia costituzionale; ogni detto era sentenza di giustizia e di fede. Poscia il general Pepe rassegnò il comando dell’esercito, e dal re n’ebbe lode. Ed il duca di Calabria, qual figlio, drizzò discorso al padre, che ragionava non già di politica o di regno, ma della gratitudine sua e della sua stirpe; adombrando che solo per la costituzione poteva esser salda la dinastia. Dopo ciò, il re dichiarò aperto il parlamento nazionale dell’anno 20, e partì. Si ripeterono al suo muovere i voti del pubblico; tanto ch’egli non era più nella chiesa, ed il grido di plauso e di gioja si prolungava. Ma il cielo, che nel mattino era sereno, all’uscir del corteggio annebbiò; si fe’ più scuro, e quando il re giurava si addensarono le nubi, e cadde stemperata pioggia. Fu caso: ma superstizioso volgo diceva, che Iddio antivedendo l’avvenire, cruccioso di preparati spergiuri, oscurasse improvvisamente i luminosi spettacoli della natura.

XVIII. Convocato il parlamento, fu cassa la giunta di governa della quale si lamentava il popolo, accusatore instancabile dei governanti; incolpandoli delle sue sofferenze, benchè le cagioni fossero più potenti della sapienza e dell’arte di governo. Nel parlamento fissarono gli sguardi il re. il vicario, i ministri, i moderati, gli eccessivi, per indagar lo spirito di quella congrega, e farne guida chi di regno, chi di salvezza, chi di ambizione, chi d’inganni. Presto spiacque ai seguaci delle parti estreme; chiamandola demagogica gli assoluti, servile gli sfrenati, dissoluta i ministri, ministeriale i dissoluti. Le quali ingiurie si volgevano in lode; però che dove le passioni opposte trasmodano, gli uomini giusti che