Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
22 | Storia dei Mille narrata ai giovinetti |
rompere ogni preparativo, perchè dalla Sicilia aveva notizie non buone. Ondeggiò tutti quei giorni pensando alla tremenda responsabilità di una catastrofe. Il 27 gli giunse un telegramma da Fabrizi da Malta, quasi lugubre: «Completo insuccesso nelle provincie e in Palermo; molti profughi raccolti dalle navi inglesi giunti in Malta.» Così diceva il telegramma. E la parola del Fabrizi valeva quella che Garibaldi stesso avrebbe detto. Era un vecchio patriotta di quelli sfuggiti nel 1831 alle forche di Modena; e sempre poi aveva vissuto in esilio a onorare l’Italia e a farla stimare dagli stranieri. Egli non poteva che dire la verità. E perciò Garibaldi deliberò di lasciar andar tutto, e di tornarsene nella sua solitudine di Caprera: anzi, diede ordine di tenergli un posto sul vapore che doveva partire il 2 maggio per la Sardegna. Cavour lo seppe, e scrisse a Napoleone che ormai di una impresa di Garibaldi non c’era più da temere.
Ma allora si erano fatti attorno al Generale tutti i più ostinati a voler andare in Sicilia: Bertani, Bixio, Crispi e tanti altri minori, che nella Villa Spinola tennero con lui una specie di gran Consiglio, il 30 aprile, anniversario della sua bella vittoria del ’49, contro i francesi, sotto Roma. In mezzo a quel consesso, tra i discorsi roventi di quei patriotti, come uomo ispirato da una luce improvvisa, Garibaldi balzò su d’un tratto a dire: «Partiamo. Ma subito, domani!» Domani era troppo presto: bisognava pensare ad avere i legni da navigare! Ma insomma un po’ di giorni, tre o quattro, sarebbero bastati. Intanto quegli operosi avrebbero raccolta la gente da fuori. Dacchè egli aveva detto «Partiamo,» lasciasse fare, che ad eseguire c’era chi ci pensava.