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III |
Scrisse G. A. CESAREO
nel Giornale d’Italia del 3 agosto 1904.
Giuseppe Cesare Abba ha creduto di scrivere la Storia dei Mille; invece ne canta le gesta. Non già che il suo libro fallisca alla verità storica; ma gli uomini e gli avvenimenti, rifolgorati della luce d’uno spirito di fanciullo e d’eroe, quello del narratore, tornano a fremere, a palpitare e a vivere: ciascun combattente si rizza, lui, col suo temperamento, con la sua volontà, col suo gesto, con la sua voce; ciascun fatto d’arme croscia e tumultua con la sua qualità, col suo tòno, col suo paesaggio, col suo colorito, con la sua anima. Nulla qui è letteratura, e tutto è poesia. L’immagine è realtà, la parola è visione, la prosa è ala. Qui non si rischia d’inciampare nel passaporto versificato di Bixio o nell’orazion piccola di Garibaldi al vento e al sole o sull’enumerazione delle stelle che vigilarono i morti sul campo di Calatafimi. Qui nulla d’ozioso, di distratto, d’accademico, di calcolato; ma la frase, vibrante come una lama, la figurazione sobria e ardente a guisa d’un lampo, il ritmo del periodo misurato come una marcia di trombe e di tamburi, tutto concorda allo scopo supremo di rievocare alla fantasia ciascuna sensazione e ciascun sentimento della prodigiosa avventura. Il narratore veramente riesce, appunto come i poeti di razza, a rapire il lettore a grado a grado riluttante, curioso, perplesso, attento, soggiogato, commosso, nella zona ideale delle sue gesta, di guisa che per più ore a noi non accada di pensare, di respirare, di palpitare e d’esistere se non appunto nell’esaltazione illusoria in cui ci ha rapiti. Eguale effetto dovevano produrre ne’ foschi castelli di Francia e d’Italia le lasse eroiche delle canzoni di gesta, quando l’ispirato trovèro s’accompagnava il canto con la viola monotona, e bella Doelta o bella Jolanda circondate dalle donzelle, dagli scudieri e da’ servi, ascoltavano trepidanti il clangore del gran corno d’Orlando o il magnanimo addio di Garin lorenese.