Pagina:Storia dei Mille.djvu/216

202 Storia dei Mille narrata ai giovinetti

si offrivano alla rivoluzione, alla galera, alle forche. E così come narrò di sè il Mazzini, di sè e di quel suo momento narrò Garibaldi. «Confesso che non ero scoraggiato; ma considerando la potenza e il numero del nemico e la pochezza dei nostri mezzi, mi nacque un po’ di indecisione sulla risoluzione da prendersi, cioè se convenisse continuar la difesa della città, oppure rannodare tutte le nostre forze e ripigliar la campagna. Quest’ultima idea mi passò per la mente come un incubo, ma la allontanai da me con dispetto: trattavasi di abbandonar la città di Palermo alle devastazioni di una soldatesca sfrenata! Mi presentai quindi quasi indispettito con me stesso al bravo popolo dei Vespri.»1

Apparve di fatto dal balcone sinistro del Palazzo, nel lampo delle invetriate che, mentre si aprirono, scintillarono percosse dal sole già basso verso Monte Pellegrino, e a capo scoperto, come Ferruccio ai suoi, prima di Gavinana, parlò. Breve, pacato, con voce che suonò come un canto, disse che il nemico gli aveva fatto delle proposte ingiuriose per Palermo e che egli, sapendo il popolo pronto a farsi seppellire sotto le rovine della sua città, le aveva rifiutate.

V’è ancora qualcuno, vivo, al mondo, che, sebbene sia passato quasi mezzo secolo, si sente sempre nell’anima quella voce. E ancora vede ciò che vide in quell’ora. Vede quella moltitudine che non balenò neppur un istante, e che alle ultime parole di Garibaldi ruppe in un grido solo: «Sì! sì! Grazie! grazie!» con una levata di mani, di fronti, di cuori, tale da fare

  1. Memorie, pag. 262, ed. Barbèra, 1888.