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La calata a Palermo 193

baldini, dai Picciotti e dai cittadini. I borbonici lasciarono più di cento morti e forse quattrocento feriti, intorno alla Cattedrale e per le vie percorse, ma ritirandosi incendiavano le case, uccidevano gli inermi, violavano le donne. Erano divenuti selvaggi, furiosi. Forse facevano così, per dare l’ultimo sfogo all’odio secolare mantenuto vivo contro l’isola in loro, sudditi dell’altra parte del regno; forse li faceva divenir più crudeli lo spettacolo degli incendi, ardenti in più di sessanta luoghi della città; tra i quali più grande e spaventoso quello del quartiere intorno San Domenico, tutto in fiamme.

Ma se le sorti volgevano a male per i borbonici, anche dalla parte di Garibaldi crescevano le angustie. Quella sera non v’erano quasi più munizioni. Si lavorava a fabbricare polvere, ma non ne veniva abbastanza pel bisogno, specialmente perchè i Picciotti, come scrisse poi Garibaldi, sparavano troppo. E da tutti i punti della città dove si combatteva, giungevano uomini a chieder cartucce, come chi spasima per fame chiede pane. Gli aiutanti del Generale rispondevano alzando le braccia muti: il Sirtori, sempre tranquillo, raccomandava di dir dappertutto che le munizioni giungerebbero, che intanto i combattenti s’ingegnassero con la baionetta. E invocava la notte. Almeno ci sarebbero state alcune ore di riposo. E poi girava già viva la voce che tra i regi fosse cominciato un grande scoraggiamento; si diceva che altri loro ufficiali erano passati alla rivoluzione, tra i quali due capitani del genio ed era vero; e ormai pareva certo che i dodicimila uomini del Palazzo reale stessero isolati affatto, senza viveri e senza comunicazioni col porto e con Castellamare. Dunque una risoluzione il loro generale