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La calata a Palermo | 175 |
certo lo aveva voluto Iddio. E nessuno, forse nessuno, pensò che quell’uomo con sì poca gente era entrato a tirar su la città, su di sè, sui suoi, lo sterminio.
Tra quei cittadini v'erano fin dei preti. Quello alto, maestoso, con la gran testa già grigia, era l’abate Ugdulena; quell’altro smilzo, pallido, vibrante, era prete Di Stefano. E giunsero degli uomini in divisa che parevano di cavalleria, giubba rossa, calzoni azzurri. Disertori forse? Al portamento no; e poi non avevano armi. Donzelli del Comune erano, che venivano dal Palazzo pretorio. Dunque la magistratura cittadina, il Pretore, i Decurioni erano già in moto? No. Essi erano borbonici quasi tutti, e quasi tutta l’aristocrazia borbonica se n’era fuggita a Napoli, o ritirata sulle navi in rada, stava al sicuro. Ma insomma quelli erano i Donzelli del Palazzo. Sui bottoni dorati delle loro divise, si leggeva la sigla: S. P. Q. P. Senatus populusque palermitanus. Ma Giuseppe Giusta, artigiano, lingua di fuoco, lesse subito a modo suo: « Sono Pochi Quanto Prodi. » Il frizzo non destò allegria perchè quello non era momento da celie; anzi, qualcuno disse che Giusta celiava per farsi dar giù, forse, un po’ di paura. Ah la paura! Strana affezione. V’erano lì dei giovani che nella notte, durante la marcia, avevano forse tremato; e adesso si sarebbero messi da soli a qualsifosse cimento.
Perchè adesso era davvero aperta la via a tutte le prove, e la città s’avviava a divenir tutta un campo. Verso Sant’Antonino si combatteva; da porta Macqueda, i cannoni del generale Cataldo tiravano lungo la gran via; quelli del generale in capo Lanza, da Palazzo reale, spazzavano tutta Toledo. Non pareva vero che il forte di