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Gibilrossa 163

reschi tra quei Garibaldini; si facevano scrivere nei loro taccuini i nomi di questo e di quello, davano delle strette di mano che parevano strappi; insomma sembravano in festa, e si facevano promettere una visita sulle loro navi.

Ma i politici, e tra quei militi ve n’erano molti, mormoravano. Ah gli Inglesi? Sempre dove avevano toccato avevano lasciato l’ipoteca o fatto mercato. Berchet li aveva ben giudicati ne’ suoi Profughi di Parga! Essi forse agognavano che in Sicilia si versasse tanto sangue che non fosse più possibile nessuna pace coi Napolitani: e poi d’accordo con Napoleone si sarebbero presa l’isola, lasciando libero lui di farsi dar la Sardegna da Vittorio Emanuele, e questo di dargliela. Napoli con le sue provincie continentali sarebbe rimasto ai Borboni. E così salvi questi, salvato al Papa il resto del regno, l’Austria si sarebbe baciate le mani di veder questi contenti e di tenersi il Veneto; la Russia contentissima, avrebbe applaudito; e l’unità d’Italia, addio!

Queste cose si dicevano a Gibilrossa dai mazziniani specialmente; e di quelli che le ascoltavano chi le credeva già quasi belle fatte; chi ci si arrabbiava a discuterle, a negarle, e chi crollava le spalle, ridendo. A buon conto, se era vero qualcosa d’altro che già si sussurrava, quegli Inglesi avevano portato a Garibaldi i piani delle fortificazioni di Palermo e dei posti occupati dal nemico alle porte. Questo era bene sapere, perchè il tempo incalzava, si avvicinava qualche grand’ora, e con quella tal colonna andata dietro all’Orsini e che poteva da un’ora all’altra apparire alle spalle, bisognava far presto.