Pagina:Storia dei Mille.djvu/165


Marcia notturna 151

celata tutto quel giorno e la notte appresso, senza che nulla ne trapelasse ai borbonici, campeggianti nella Conca d’oro.


Un frate strano.


Cotesto giorno, uno di quei soldati fu fermato da un giovane monaco che egli avea già veduto girare pel borgo, e soffermarsi qua e là a parlare coi suoi compagni. E capì subito che era un’anima tormentata da qualche gran cruccio. Avviato il discorso, il monaco si spiegò: avrebbe voluto gettarsi nella rivoluzione, ma qualcosa lo tratteneva. Seduti a pie’ d’una delle tre grandi croci che sorgevano su d’un poggio a figurarvi il Calvario; quei due parlavano già come vecchi amici. E il garibaldino diceva al frate che se avesse voluto entrare nella sua Compagnia, vi avrebbe trovato il Comandante e gli ufficiali e molti militi siciliani tornati dall’esilio; e che l’esser frate non voleva dire; che già altri frati avevano combattuto per Garibaldi a Calatafimi e che anzi, un francescano lo seguiva già da Salemi. Il monaco rispondeva che pur ammirando Garibaldi gli pareva che quella ch’egli combatteva non fosse la guerra di cui la Sicilia aveva bisogno. L’unità d’Italia e la libertà pel vero popolo siciliano erano quasi nulla. Che potevano farsene quelle plebi ancora oppresse da tutte le ingiustizie, altrove, in Piemonte, in Lombardia, levate da un secolo? Non avevano visto essi venuti da fuori, per quel poco che avevano già corso dell’isola, quanta era la miseria e quanta l’abiezione di quelle plebi? La libertà non era pane per lo stomaco e nemmeno per lo spirito; anzi sarebbe poi per