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Dopo la vittoria 127

le squadre dei Picciotti, e invadevano il campo di battaglia, meravigliati anch’essi del combattimento contemplato dall’alto, come dai gradini d’un anfiteatro una lotta di gladiatori.

Garibaldi guardava sempre una strada che da ponente, per una gola, metteva in quella specie di conca da cui sorgevano su i due colli, quello della sua posizione del mattino e quello conquistato su cui si posava coi suoi. Forse temeva l’arrivo di un corpo nemico da Trapani. Ma aveva fatto mettere gli avamposti, e dato l’ordine a Bixio di collocare le artiglierie. Aveva anche già detto di voler salire a Calatafimi il giorno appresso, e sapeva lui per quali vie si sarebbe incamminato. Per quella fatta dai Napolitani nella ritirata no certo: e questo capivano tutti, perchè tentar un attacco da quella parte sarebbe stata una follìa. Ma egli era allegro in viso, e ciò bastava.

Uno strano sentimento, che tutti dovettero provare, ma di cui si accòrsero e se lo spiegarono per dir così solo i più raffinati allora e molto di poi anche gli altri, ripensando a quelle ore, fu quello dell’isolamento in cui si trovavano. Non erano passati che dieci giorni da quando avevano lasciato Genova, eppure pareva loro d’essere via da mesi e mesi, d’aver navigato molto, d’aver camminato molto, d’esser già quasi gente dimenticata. Si sapeva nell’Alta Italia che erano sbarcati, che erano stati accolti bene? Qualche spirituale forza dava almeno in quel momento un senso vago del dove si trovavano e della loro vittoria? A Milano, a Genova, a Torino e nella Venezia gemente in mani austriache, per tutti i borghi e i villaggi da dove qualcuno d’essi s’era mosso, cosa