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Il combattimento 121

bina, pei tempi d’allora, era perfettissima, e la daga baionetta faceva pensare a quelle terribili degli zuavi. Poveri ragazzi!

Come fanno stringere il cuore l’eleganza delle divise indosso ai morti sui campi, e quelle cose e quei numeri e quei nomi dei corpi! Coloro che giacciono non hanno più nè vita nè nome, nè paese nè nulla: a casa loro i parenti non sapranno la zolla che beve il loro sangue, nè l’erba su cui spirarono l’ultimo fiato. Solo non li vedranno mai più; essi son morti.

Triste cosa la guerra! Ma allora pareva ancora bella perchè vi si poteva patire, morire, per far trionfare un’idea, più che perchè vi si potesse provar la gioia e la gloria di vincere.

— Rispettate i nemici, rispettate i feriti! — gridò Francesco Montanari di Mirandola, caduto per grave ferita su quel colle — sono italiani anch’essi! —

E la sua faccia severa, quasi dura e in quel momento contratta dal dolore, parve trasfigurata da quella sua sublime pietà.

A che ormai descrivere il fatto d’armi di Calatafimi?

Le battaglie, da quelle che descrisse Omero all’ultima della storia moderna, si somigliano tutte. Sono furia d’uomini contro uomini che s’avventano gli uni agli altri, dandosi a vicenda da vicino o da lontano la morte, con più o meno arte, secondo i tempi. Cortesi fin che si vuole, i combattenti son sempre ancor poco diversi «dagli uomini sul vinto orso rissosi.»

Eppure leggiamo rapiti dalle narrazioni, ammirando fatti che in sè sono atroci, e ci esaltiamo e chiamiamo