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A Salemi 107


Stettero poco a giungere delle cavalcate da tutte le parti, e poi drappelli di insorti come quei della notte avanti, a cento, ducento, trecento; e chi portava lo schioppo ancora a pietra focaia, chi la doppietta, chi fino il trombone. I più erano armati di picche, e tutti insieme, per quelle viuzze a salite e discese ripide, facevano un chiasso più da sagra che da rivoluzione. Ma si udivano anche delle grida ingiuriose ai Borboni, e delle canzoni che ferivano il nome di Sofia regina. E spiacevano.

Dopo mezzodì fu affisso alle cantonate un proclama.

— Ah! Ora dunque tutto è nelle mani sue! — dicevano i militi, e pareva loro che quel titolo di Dittatore infondesse una forza di disciplina superba. E pensavano al nemico. Non si sarebbe fatto vedere! O bisognava andare a trovarlo? Già, di salir lassù a Salemi per trovar loro, non avrebbe certo tentato. Chi sapeva mai! Ma a buon conto, già dalle prime ore, erano partiti per gli avamposti i Carabinieri genovesi, e più lontano ancora era andata una mezza squadra della Compagnie di Bixio. In quella squadra, comandata dal giovanissimo Ettore Filippini veneziano, si trovavano da semplici militi Raniero Taddei ingegnere e Antonio Ottavi tutt’e due da Reggio Emilia, ufficiali esperti e considerati nelle guerre passate; e così da quella parte il servizio di campo era bene affidato.

Intanto gli artiglieri avevano già piantato alla meglio una sorta di officina, dove lavoravano a costruir gli affusti pei canoni di Orbetello. Giuseppe Orlando e Achille Campo, coi soli e primitivi strumenti che avevano potuto trovare dai carrai di Salemi riuscivano a far miracoli di meccanica; e il giorno dipoi i tre cannoni e la colubrina, rimessa un po’ a nuovo anch’essa sul suo