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Lo sbarco 95

gettarono a terra e lasciarono scoppiare: una di quelle colpì e sfasciò mezzo un casotto da doganieri del molo; un’altra fece tremare la settima Compagnia, passandole parallela alla fronte, così che due braccia più a sinistra la mieteva tutta. «Alte le teste!» gridò Cairoli; e la Compagnia stette salda.

Alfine fu dato il comando di salire alla città. Manin e Maiocchi regolavano la corsa a gruppi. Un po’ curvi, un po’ carponi, un po’ ritti, regolandosi alle vampate dei cannoni nemici, correvano quei gruppi su per il pendìo verso la porta della città e vi entravano. Cara Marsala! E di qua e di là si spandevano per le vie traverse, perchè in faccia a quella maestra era andata a porsi una delle fregate, e tentava, coi suoi tiri, d’infilare la porta. Poca gente per quelle vie; degli usci si chiudevano; dalle soglie d’altri usci e dalle finestre donne e uomini guardavano paurosi; e ve n’erano che applaudivano, i più parevano gente trasognata.

Garibaldi, sbarcato degli ultimi, saliva anch’egli ma lento alla città, portando la sciabola sulla spalla come un contadino la zappa. E ogni poco si volgeva a guardar il porto. Gusmaroli e altri pochi che lo seguivano, avrebbero voluto portarlo via di peso dal pericolo d’essere ucciso o soltanto ferito in quel primo istante. Senza di lui non si sapeva cosa sarebbe stato di quel gruppo d’uomini, fossero pur molti i grandi e i forti tra loro. Egli da solo era un esercito. Ma nessuno osava dirgli che si guardasse, nessuno, neppur Bixio, venuto via addirittura l’ultimo da bordo. Egli aveva voluto prima far portare a terra tutto ciò che gli era parso buono a qualcosa, poi