nirono altri uomini paesani e forestieri. Mediante l’unione di tante famiglie differenti, parlanti ciascuna suo dialetto, formossi una favella rusticana necessariamente mista, materiale, incolta e variabile; indi mondata della dura corteccia del pedal suo, venne a non lieve splendore a’ giorni d’Ennio, che diede all’idioma consolare ampiezza e nobiltà, traducendo in quello la greca armonia. Similmente Livio Andronico, Nevio, e in generale tutti i primi poeti e prosatori, che attendevano a ingentilire la favella, liberissimamente produssero formule e parole elleniche, che, dimesticate e fattesi proprie della latinità, furono abbracciate dai susseguenti scrittori, e determinarono all’ultimo il genio della lingua illustre e letterata del Lazio. Certamente il linguaggio romano perdè così di mano in mano la sua forma primitiva, e tolse in cambio una faccia eolica; ma chi può dire qual differenza tuttavia passasse in fra la lingua scritta e il volgare popolaresco, che pur si mantenne sì lungamente in uso nel contado? Ben scriveva senza esitazione il dotto liberto di Tullio aver gli antichi Romani lungo tempo ignorato il greco1: dove che i grammatici di leggieri scienza, i quali, come Tirannione, volevano senza più la latina figlia singolare della greca2, giudicavano della lingua di
- ↑ Veteres Romani Graecas literas nesciverunt, et rudes Graeca lingua fuerunt. Tiron. ap. Gell. xiii. 9. Ugualmente i Romani del v. e vi. secolo storpiavano qualunque nome ellenico: nec dum adsuetis graecae linguae dice Festo.
- ↑ Suid. v. Τυραννίων.