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CAPO XXVI.


Agricoltura.



Data opera fin qui a considerare lo stato politico e morale dei nostri popoli, dobbiamo adesso por mente alla loro qualità civile di agricoltori, soldati, e navigatori. Tosto che comincia a farsi più certa l’istoria, tutti gl’Italiani posti in sulla scena del mondo civile avean sicuramente già scorso l’età barbarica, e raggiunto il periodo d’una sana civiltà ordinata per costumi, religioni e leggi, confacenti in tutto alle abitudini della vita agricola o campestre. Mal potrebbesi determinare il tempo, in cui un popolo nomade lasciava da se la verga pastorale per darsi all’aratro. Ma certo è che la civiltà prima delle genti italiane debbesi all’arte salutare della sementa, qua recata in dono, come dicevasi, da numi benevoli. Per solo vigore dell’antica istituzione lo stato politico s’appoggiava a un sistema normale di leggi agrarie, prime fra le civili: e per virtù di quella il popolare insegnamento avea ugualmente per iscopo principale il progresso e l’amore dell’agricoltura: paterno retaggio di pacifica uguaglianza civile, di libertà e di giustizia. Soprattutto la religione soccorreva con la sua potente forza a questi beni della vita umana, e ne cautelava insieme il godimento e la durata: ora santificando le fatiche dell’agricola; ora festeggiandole con feste