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16 | CAPO I. |
del mare, divise un tempo la Sicilia dalla Calabria1, dovette al certo lasciare ne’ posteri una profonda impressione di spavento e terrore. Uomini ancora selvaggi, e vie più timidi per le rinnovanti rovine di vulcani ardenti, e per gli spessi danni di furiose inondazioni, non ardivano allontanarsi da’ luoghi eminenti, dove avean nido e salvezza: altrove, intere popolazioni, nulla meno atterrite per l’orrore di terremoti e d’aprimenti della terra, abbandonavano le sue dimore rifuggendo a stanze più sicure. E non pertanto la frequenza stessa di queste rivoluzioni fisiche ne rendeva lo spettacolo men funesto: gli uomini cessarono grado a grado di temere, e poterono anche in processo di tempo fermarsi su que’ medesimi terreni, che il ritiramento delle acque, e la lenta dissoluzione delle lave, avean lasciato più maggiormente fecondi. Così l’esperienza dei secoli ha confermato tra noi con qual sorprendente facilità le forze della natura e dell’uomo concorrano insieme, sotto in clima benefico, a riparare ai danni di questi distruttori fenomeni.
Le generazioni susseguenti ristrette insieme, e meglio distribuite nelle sue dimore dalle Alpi sino al mare siciliano, trovarono indi appresso mezzi agevoli e copiosi a sostentarsi. Cento poeti, oratori e istorici de’ tempi antichi, che l’hanno in più maniere de-
- ↑ La separazione della Sicilia dalla terra ferma era un fatto accettato da tutta l’antichità: e lo confermano sì la figura, come la struttura interna de’ monti Nettunni ed Appennini, divisi dal Faro di Messina.