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CAPO X. | 221 |
nome, non poteva non accogliere e non gradire, se badiamo alla natura umana, inclinevole ad ostentazione, tante belle favole e novelle, che sublimavano, quanto può dignità, la loro propria stirpe. La leggenda troiana, che meglio si confaceva coll’indole di popolo guerriero, vi prese più d’ogni altra radice. E come prima la casa Giulia tenne il principato, non fu più lecito dubitare di quell’origine divina.
Venti anni addietro io dava opera ad impugnare con franca libertà le stesse favolose opinioni, esponendo come le prime antichità latine s’erano convertite in un bel romanzo istorico. Non piacque a tutti che io chiamassi favole le favole. Ma i progressi della sana critica, ed il secolo ragionatore, hanno da se operato con tal forza, che la tradizione greca e troiana, Evandro, il regno Albano, gli Eneadi, ed altre molte novelle accomodate con colorata cagione a congiungere insieme la fondazione di Roma fatale con la caduta di Troja, non possono altrimenti addursi che per trovati poetici e finzioni. Non i soli Quiriti però si piacquero di trar principio dalla frigia colonia, che dalle rive del Xanto portò nella terra Ausonia il destino e la gloria futura di Roma1: tutta la terra del Lazio fu a un modo tramutata da penne amplificatrici in un paese di finzioni. Le città e le borgate stesse latine, esaltate