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92 CAPO VI.

mentovati popoli; e che parecchi di loro son qualificati nativi di questa terra; non dobbiamo pure perder di mira, che viveva in Italia una gente italica numerosissima, prima che la straniera, e che dessa, come notiziano le memorie che abbiamo, e il complesso de’ fatti, già trovavasi aggregata in tante tribù, datesi di buon’ora alla vita pastorale ed agricola, e disciplinate da religioni e costumi suoi propri, quanto almeno comportava la grossa rusticità dei tempi. Gli scrittori latini ripetevano senza esame le narrative greche, e singolarmente quelle che più tendevano a nobilitare le origini di Roma, onde l’opinione che i Pelasghi, tenuti onninamente per Greci, avessero avuto dominazione in Italia, non fu solo cantata da Ennio, ma vi prese radice per ciò n’avea detto l’oracolo del saper romano Varrone1. Il perchè fino Tacito, che mira alle volte inopportunamente a far mostra di erudizione volgare, replica egli pure il racconto, che le lettere furon recate nel Lazio da un arcade pelasgo. Quest’uso bensì e sperienza di lettere attribuita ai Pelasghi del Peloponneso, è un mero detto di mitologi2, posto in credito dai soli scoliasti e grammatici. Ancorchè essi stessi, quando scrivevano, si può presumere ignorassero al pari di noi (nè di ciò vogliamo sdegnosi i poliglotti) quali si fossero questi caratteri e questa lingua dei Pelasghi. Nè fa

  1. Serv. iii. 600; Macrob. Sat. i. 7.
  2. Diodoro nomina tra questi un Dionisio. iii. 66.