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464 serata xxviii

deliziosa di un soffietto che mi pigliava proprio fra le spalle e l’orecchio da una banda, con una insistenza, una pertinacia meritevole di miglior causa, come nel caso, per esempio, che avesse preso di mira un fornello da fabbro-ferrajo. Voi capite che quel soffietto era lui il vento gelato dell’Etna, che trovava modo di penetrare da cento parti nel povero stambugio, geloso che a tanta altezza non vi fosse luogo che potesse dirsi tepido o caldo. Non vi dirò degli altri incomodi o sconcerti subìti da me e più ancora dai compagni: si stava male davvero. Il freddo dell’Etna, ve l’ho già detto, non è soltanto un incomodo, ma è un veleno, sicchè, per quanto l’interrotto russare dicesse che il sonno non era affatto estraneo a quell’uggioso ambiente, fu una di quelle notti in cui non si fa che sospirare l’alba, che venga a porre un termine al troppo lungo supplizio.

» Quando Dio volle, apparve il primo albore. Non era però quell’albore nitido, stimolante, che mi svegliò tante volte sulle montagne. C’era un qualche cosa di sbiadito, che, per quanto lo si guardasse, nè mutava colore, nè cresceva d’intensità: si sarebbe detto un’aurora stagnante. Il malessere, la stanchezza, il freddo di dentro che annunciava un freddo assai più intenso al di fuori, tutto in fine ci teneva incantucciati sui nostri graticci. Finalmente però si batte un po’ di diana: — Su.... andiamo! Presto sulla cima! — Chi si alza a sedere, chi si soffrega gli occhi, chi sbadiglia o si stira, e in fine tutti si accingono, benchè di mala voglia, a ravviare un pochino la malcomposta persona. Il primo che sporse il capo dall’infelice stamberga ebbe a ricevere tal grado di costernazione che bastasse a rendere costernatissimi tutti gli altri. Una nebbia fitta, palpabile come quella dell’Egitto al tempo di Mosè, aveva preso di mezzo il Mongibello. Ci avvedemmo ben tosto che la giornata era perduta, l’impresa fallita. Mesti, scoraggiti, traditi, siamo rimasti qualche ora, o accovacciati entro il meschino albergo, o erranti all’ingiro di esso in mezzo alla nebbia, aspettando che un qualche santo si movesse a pietà di noi. Forse più tardi una folata di vento.... Forse col levar del sole.... Ma via! nessun indizio che ci permettesse almeno di illuderci. La giornata era perduta. In Svizzera, in que’ magnifici alberghi a piè de’ ghiacciai, si può stare comodamente aspettando che torni il sereno sulle cime nevose che si voglion salire. Ma qui, nella Casa degl’Inglesi.... Una compagnia di otto persone con guide e cavalli, senza suffragio di sorta, senza mezzi nemmeno di confortarsi un pochino dal freddo che vi spossa, vi demora-