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alla casa degl’inglesi 463

Il lusso è a un dipresso il medesimo per le tre stanze, cioè la negazione del superfluo non solo, ma del più stretto necessario. Nella camera di mezzo, che sarebbe la sala, rimpetto all’uscio d’ingresso c’è un camino: da un lato una rozza tavola con qualche sedia che non trova mai il posto per tenersi ritta: dall’altro lato v’è un apparato di tavole a graticcio, su per giù come si usano pei bachi da seta. Sono i letti pei forestieri. Se ben mi ricordo quelle tavole non sono che due, disposte in guisa che, sommate col duro terreno, danno tre piani, ossia tre letti capaci ciascuno di due persone misurate pel lungo. Che prospettiva per chi, stanco, assiderato, sognava forse di vendicarsi di tutte quelle peripezie con una buona dormita! Basta: non ci badiamo per ora; ciò che urge al presente è di ammanire la cena. Ciascuno ha il suo debole, io quello di credere di avere una certa disposizione alla, se non nobilissima, certo utilissima arte del cuoco. Si comincia a porre sul focolare alcuni rimasugli umidi di una certa tettoja o logora o sfondata, perchè il carbone ci inspirava certi sospetti; poi tutti giù a soffiare, che non ci voleva meno di otto bocche per obbligare il fuoco a buttarsi addosso a un combustibile, che era l’antitesi del suo nome stesso. La fiamma comincia a mostrarsi col suo color viola in mezzo a quell’intreccio di mal raccolto legname: ma intanto un denso fumo ha già riempito lo stambugio, cavando le lagrime agli otto pazienti. Ma la fiamma crepita, frigge, si alza ormai arditella, e il fumo si è alquanto diradato. — Quà la pentola.... — una pentola c’era; e dentro acqua destinata a mutarsi in brodo. L’acqua bolle, e un po’ di estratto di Liebig opererà il miracolo. La zuppa, sia lode al cuoco, fu trovata eccellente. Dopo la zuppa venne il tacchino e col tacchino il bicchiere di vinetto discreto, portato democraticamente da bocca a bocca. Non sarebbe mancato nemmeno il caffè, se non avessimo avuto la cattiva idea di provvederci a Catania di un caffè già fatto, di una specie di brulé. Quel ladro di caffettiere ci aveva messo veleno sciroppato, non caffè, nella bottiglia. Fu questo un grave disappunto con quel freddo, dopo quella fatica. Un buon caffè sarebbe stato un gran ristoro.

14. » Finita la cena stemmo alcun tempo a fare un chilo agro, mentre il fuoco agonizzava, e cresceva la notte, e il freddo si faceva più intenso. L’uno dopo l’altro cercammo poi il nostro cantuccio per fare l’esperienza come si possa pigliar sonno in tutte le condizioni più favorevoli alla veglia. Quanto a me quel graticcio mi parve un eculeo, e mi ricorderò sempre dell’aggiunta