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un poeta ciabattino 235

ziana1. Ma quando noi capitammo a Tocco lo Stromei aveva fatto da qualche tempo un profondo mutamento. Il sentimento religioso, associato forse ad un pochino di misantropia, aveva messo in penitenza il genietto della satira. Lo stato del suo animo a quel tempo è ben dipinto in un’ode, ch’egli scrisse precisa mente in quella occasione, per ringraziare il signor Maurizio Laschi, che, approfittando della nostra gita a Tocco, gli aveva recato un libro di Meditazioni sugli Evangeli, di cui gli aveva prima espresso il desiderio. Già s’intende che a Tocco librai e librerie le son cose sconosciute. I periodi ch’io vi ho citati testè, sono estratti appunto dalla dedica di quel carme».

«Si potrebbe anche sentirne qualche strofa?» interrogò Camilla. «Un poeta ciabattino è veramente una rarità».

«Aspetta.... le strofe migliori credo d’averle a mente. Quell’ode sente un po’ delle poesie d’occasione; manca piuttosto di spontaneità, è prolissa, non ha in fine quel nerbo che dai versi scritti, dirò per riflessione, distingue quelli dettati da un estro che si accende spontaneo, sotto il predominio di un sentimento quasi irresistibile. Quell’ode, ripeto, non ha nulla che fare colle satire di cui il nostro ospite ci espose i saggi più conditi; tuttavia quanti dei nostri professori di belle lettere sarebbero lieti di poter dettare dalle loro cattedre delle strofe come queste, scritte sul desco del ciabattino, tra i profumi del cuojo e della pece?... Sentite dunque alcune di quelle strofe. Dapprima, volgendosi al Laschi gli domanda:

Qual genio ti trasse dagli adri paesi
     Quì sotto le falde dei monti apruzzesi,
     O Laschi, a recarmi del nume superno
                                   Il codice eterno?

» Poi si diffonde a cantare le lodi del Vangelo:

Quel libro ch’è vita, ch’è tromba del vero,
     Ch’è sole che schiara l’umano sentiero,
     Che svela il profondo futuro destino
                                   Col raggio divino,
     . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Che in riso di cielo converte natura,
     Che cangia in diletto la stessa sventura,
     Che lauri dispensa d’eterno splendore,
                                   De’ forti al dolore....

  1. Quinto Orazio Flacco, nato a Venusio (Venosa) nell’Apuglia (Puglia) verso l’anno 66 avanti G. C., morì di 57 anni lasciando delle poesie liriche e satiriche, e un’Arte Poetica, che sono tra le più belle opere della letteratura latina. Si dice quindi proverbialmente sale venosino l’arguzia della satira.