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il travertine e le ulivete 229

più belle ulivete che io vedessi mai nelle regioni meridionali, che ne vantano tante: una uliveta tutta d’un pezzo, fitta, che si distende qualche miglio quadrato: solo in certa guisa intaccata dal paese, che copre il davanzale della piattaforma, come il guscio la tartaruga».

6. «Come mai», domandò la Camilla, «una così ricca uliveta in un bacino così sterile?».

«Ecco la domanda ch’io feci appunto a me stesso, e a cui potei rispondere facilmente, interrogando il terreno. Conoscete voi quella pietra leggiera, porosa come tarlata, che ha forma talvolta quasi di musco pietrificato?...».

«Sì, sì», risposero molti insieme; «il tufo».

«Da noi si chiama tufo; più in giù, in Toscana, in Romagna, lo dicono travertino; per essi il tufo è una tutt’altra roccia, formata da un impasto di sabbie, lapilli e ceneri vulcaniche. Ora io parlo veramente del nostro tufo, ossia del travertino. Ne sapete l’origine?».

«Mi ricordo», prese a dire Giovannino, «che quando fui a Lecco per qualche giorno, lo zio Carlo mi condusse a vedere la tufaja di Germagnedo. Ci ha difatti un gran masso di quello che noi chiamiamo tufo e lo scavano d’inverno i contadini, quando non hanno lavori in campagna: ne fanno dei pezzi riquadrati, per fabbricarne muri e pilastri: ma i pezzi più curiosi, che talora pajono di zuccaro candito, li chiamano fiori, e li vendono per farne ornamento ai giardini, come si usa anche quì in Milano».

«Benissimo! e non ti disse lo zio Carlo come s’era formato quel tufo?».

«Sì: egli m’assicurò che tutta quella pietra era la posatura di una sorgente, che nasce un po’ in alto dagli stillicidî di una caverna anch’essa di tufo, così bella, che è un desìo a vederla. Mi disse di più che quel tufo, e specialmente quei fiori che ho detto, derivano dalle erbe e dai muschi, che la sorgente andò

    pilastri quadrati. S’ascendeva dall’uno all’altro terrazzo per amplissime gradinate, a’ cui lati eran disposte le così dette viti d’Archimede per mandar l’acqua fino al l’ultimo ripiano. Tutto l’edificio, pilastri, terrazzi, vôlte, gradinate, era di cotto: i pilastri, rivestiti di cotto, internamente erano pieni di terra, in cui si sprofondavano le radici degli alberi giganteschi che ombreggiavano i terrazzi. Secondo Strabone, il circuito a terreno misurava quasi 500 metri. Tutti poi dicono che da lontano quei giardini parevano una collina boscosa. Chi li edificasse non si sa; si crede un re per far piacere alla sposa, che, essendo nativa dei monti della Persia, mal sopportava l’uniformità della pianura babilonese, e al pensiero delle sue montagne era presa da quel male che tanto travaglia i montanari lontani dalle loro case, e che dicesi nostalgia — malattia del ritorno, — o più esattamente, — la pena, il dolore, la smania del ritorno.