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Ella lo guardò un poco col bianco viso appoggiato nel cavo della mano aperta e il gomito sulle ginocchia.

— Io verrei con voi — disse — anche se sapessi di dover sfidare la morte.

— E il vostro fidanzato? — domandò Ettore.

Susanna socchiuse gli occhi per non interrompere il sogno, per non vedere la realtà che l’altro evocava brutalmente.

Ma qualcosa insorse dentro di lei che le dettò la risposta, una cosa folle e senza nome che forse era il grido inconscio dello spirito verso la felicità più forte della ragione, più forte del dovere, più forte della fede.

— Non ho più fidanzato, — ella disse.

Ettore sobbalzò:

— Che è stato? — egli chiese. — Da quando?

— Da ora.

In un soffio si perdettero le sue parole, ma Noris le colse, le comprese, le penetrò nel loro significato drammatico.

Sentì che quella povera creatura era smarrita e si perdeva per lui, per lui.

Non ebbe bisogno di contemplarla accasciata, prostrata, disfatta dalla verità terribile che ella leggeva in sè stessa per la prima volta e dallo sforzo doloroso di quella confessione amara per sentire che ella gli apparteneva intera, che era sua, sua, sua, che gli sarebbe bastato stendere la mano per coglierla e per portarsela via come una magnifica preda di conquista.

E sofferse di quella scoperta.

Proprio, il dramma di quel piccolo cuore sul quale egli avrebbe potuto mettere il suo suggello per sempre non riusciva nemmeno a lusingare il suo amor proprio.

Troppe volte aveva visto l’amore rincorrerlo dacchè egli lo aveva fuggito per trovare una lusinga d’orgoglio in questa non voluta conquista che rappresentava per Susanna un così grande dolore.

S’avvicinò alla fanciulla che aveva nascosto il viso fra le mani, le passò la destra sui capelli,