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III.
Ettore Noris era solo nell’hangar, intento a rivedere, come soleva fare ogni giorno, pezzo per pezzo, la sua magnifica macchina, quando Ugo, il più giovane fra i suoi meccanici e il suo prediletto — un fanciullo di diciassette anni che aveva interrotto gli studi e abbandonato la famiglia per seguirlo affascinato dalla conquista nuova, affascinato dall’abilità sua prodigiosa, così come i primi proseliti della fede nuova seguivano gli apostoli — entrò a dirgli:
— C’è la figlia di Pearly che le vuol parlare.
— La figlia di Pearly?
— Sì.
— Che cosa vuole?
— Non lo so, ha chiesto di lei.
— Dov’è?
— Fuori. È venuta in automobile.
— Dille che vengo.
Si accingeva a riordinare, sommariamente, la propria toeletta per uscire a incontrare l’inattesa visitatrice, ma era appena riuscito a togliersi la blusa da operaio e a lavarsi le mani, quando Susanna apparve sollevando la tenda dell’hangar e dicendo con una voce che invano ella si sforzava di rendere tranquilla:
— Sono io.
— Vi venivo incontro, — disse Noris inchinandosi a salutare.
— Non occorreva. Piuttosto, ditemi; non vi sorprende la mia visita?
— Francamente, sì. Se avessi potuto prevedere mi sarei fatto trovare in una toeletta conveniente.
— Per carità, Noris, non dite di queste cose se no io penserò che voi mi considerate soltanto una povera piccola sciocca.