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— D’amore, — disse breve la Marlitt.

Susanna taceva.

— Racconti! — supplicarono parecchie voci.

— Non posso, non so.

— Che peccato!

Un’altra volta il rombo del motore interruppe i commenti.

Adesso, Noris partiva.

Anche Susanna guardava, vinta suo malgrado dal fascino della cosa magnifica, presa dall’entusiasmo della folla che in unico palpito e in impeto solo salutava la macchina librantesi nell’alto con uno scroscio di battimani che veniva da ogni parte del campo e si diffondeva lontano con un clamore di gloria.

Com’era suo costume di fare, Noris aveva drizzato in alto la prora del suo velivolo come un destriero impennato, con un’audacia di manovra che dava, veduta, un brivido, che metteva nell’entusiasmo del pubblico la tensione di uno sgomento.

— Se cadesse! — disse alle spalle di Susanna una piccoletta bianca in viso come un cencio lavato.

Susanna si rivolse coll’impeto d’una persona, offesa, poi ebbe vergogna del suo impeto, tornò a voltarsi, fissò ancora i suoi occhi verdi su nell’azzurro dove macchina e aviatore s’erano ormai chiusi in una cosa sola staccantesi sullo sfondo dell’orizzonte sfavillante di sole come una doppia sottil linea soltanto, due brevi parallele nere di cui la superiore fosse un poco più lunga dall’altra.

— Taci, — diceva la signora Acerra alla piccola, — non si pensano nemmeno codeste cose.

— Perchè? — chiedeva la bimba meravigliata.

— Perchè portano sfortuna.

Elsa Marlitt sorrise.

— Mi trovate superstiziosa? — domandò la biondissima Acerra alla fanciulla.

La Marlitt tornò a sorridere.

— Siete italiana e per giunta meridionale, — disse, — è naturale che siate superstiziosa.