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Susanna aveva appena salito la breve gradinata che dal giardino metteva nel vestibolo della villa, che Noris le apparve un’altra volta in un atteggiamento singolarissimo, intento ad aiutare Nadina, la minor sorella di Susanna, a raccogliere un fascio di fiori sparsi sul pavimento del vestibolo.

Essi non la videro subito: erano chinati e le volgevano le spalle e Susanna potè udire la voce di Noris, una calda voce autorevole e dolce insieme, dire alla bimba:

— Bisognerà farne due mazzi, signorina, se no, ella arrischia di perderli un’altra volta.

Nadina rispondeva:

— Ha ragione. Ma ne porto sempre tanti e non mi sono caduti mai: non so come sia stato questa volta.

— È stato che i fiori erano troppi per le sue piccole braccia.

Ella pregava, confusa:

— Ma adesso lasci, la prego. Lei m’ha aiutata anche troppo.

— Ma le pare? mi diverto.

Susanna rivelò la sua presenza con una domanda alla sorella:

— Cosa succede?

Di scatto Noris fu in piedi, salutò, riprese la sua maschera d’impassibilità, rispose per la piccola che senza rialzarsi e senza parlare fissava i suoi grandi occhi limpidi in quelli della sorella:

— Nulla di male; la signorina entrava mentre io uscivo e ha perduto i suoi fiori. Adesso li abbiamo raccolti.

Nadina sorrise.

Susanna cercava impaziente nel suo sdegno e nel suo rancore, la frase che dicesse a Noris il suo disprezzo, ma la cercava invano. Le mancava il pretesto per un’offesa e suo malgrado sentiva che la fisionomia di Ettore non era di quelle che consentano una irriverenza.

Si limitò a dire alla sorella:

— Ringrazia il signore.