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Minerva non chiese all’amico che tenesse fede al suo segreto.

Ettore Noris non sentì il dovere di promettere quella fede. Entrambi sapevano che il segreto amaro e grande sarebbe stato sepolto per sempre nei loro cuori come un nuovo vincolo tacito che rinsaldasse la loro amicizia. Ma Noris pensava adesso alla singolare confidenza ricevuta con tutto lo stupore del suo essere; senza chiederlo, comprendeva che egli era solo a conoscere quell’aspetto insospettato del cuore di Minerva Fabbri e sentiva una specie di gratitudine per la fanciulla che lo aveva prescelto così, fra tutti, a depositario del segreto della sua vita.

Non una volta gli venne la curiosità di conoscere chi potesse essere l’uomo che aveva preso nella vita di Minerva un posto così essenziale; tanto meno gli balenò il sospetto che quel conteso a un destino avverso potesse esser proprio lui.

Era senza dubbio bizzarro e strano che la saggia amica fosse così diversa nella realtà da quanto la sua volontaria maschera lasciasse trasparire: strano e simpatico. In fondo, una donna invulnerabile sarebbe stata un’anomalia; così, la piccola amica e collega scendeva forse dal suo piedestallo d’intangibilità ma s’accostava dippiù alla vita.

Le disse la sua impressione simpatica, così:

— Anche voi, dunque, sapete che sia soffrire?

— Sì. E non darci la mia sofferenza per nessuna gioia.

— Giusto. Questo significa che amate davvero.

— Come avete amato voi! — disse Minerva scandendo le sillabe.

— Perchè non mi dite: come amo io?

Minerva trasalì.

— Perchè credo ai crisantemi sulle tombe: non alle rose.

STENO. La veste d'amianto. 18