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— Povero ragazzo! perchè avreste voluto sacrificarlo?

— Lo avrei fatto felice e orgoglioso, vi assicuro.

— Ciò che invece non siete voi stasera, — disse Minerva con una punta di malignità temprata da un sorriso.

— Voi non pensate quello che dite e oltre tutto vi assicuro che vi son grato d’offrirmi una distrazione alla quale io non avevo pensato.

Uscirono. Nella penombra dell’automobile chiusa che li portava dalla via un po’ eccentrica dove era l’albergo al centro della città, gli occhi di Minerva Fabbri fissavano di tra le ciglia socchiuse il volto di Ettore Noris con una intensità che voleva fissarne l’impronta nel suo cervello per sempre.

Il giovane non poteva avvedersene. Aveva visto l’amica arrovesciare un po’ il capo contro una dello pareti imbottite della vettura e socchiudere gli occhi come per abbandonarsi all’ebbrezza lieve della corsa vertiginosa e si sarebbe fatto uno scrupolo di disturbarla.

Per suo conto rimaneva assorto, coi chiari occhi fondi che le ciglia e le sopracciglia nere e corrusche facevano sembrare bruni, fissi fuori, sulla strada o, forse, nel vuoto, come seguissero distratti le cose e le persone che fuggivano, forse, guardassero lontano cose o volti invisibili.

Per la prima volta Minerva si concedeva la voluttà segreta e pericolosa di analizzare quel viso di energia e di volontà che nella penombra pareva fondere e distendere tutte le sue linee aspre e dure in una espressione di grande dolcezza e di soavità piena di malinconia. Per la prima volta ella vedeva — con un urto di tutto il suo sangue — la linea della bocca ardente e tumida disegnarsi perfetta sotto la doppia pennellata spavalda dei baffi neri piegati in una espressione dominatrice. E l’ovale del volto bruno, leggermente allungato, le pareva perfetto nella nitidezza dei disegno.