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Quando Ettore Noris, alzandosi da tavola dopo il pranzo, le propose lietamente:
— Opera o commedia? — Minerva Fabbri sentì chiudersi il cuore come sotto la stretta d’una delusione dolorosissima.
A teatro! la porta va a teatro!
Era quello il modo di passare insieme la serata, secondo lui?
Dovette fare appello a tutta la sua finezza per dimenticare l’impressione che provava e per trovare la forza di sorridere e di fare dello spirito:
— Ancora a teatro! state proprio americanizzandovi anche voi, caro Noris!
— Che volete dire?
— Che il frastuono e la folla cominciano a piacervi.
— No, non è questo. Ma non vedo dove si potrebbe andare a far trascorrere la serata che vi ho rubato.
— Credete che da soli ci si potrebbe annoiare?
La domanda fu fatta in tono semplice e gaio, con una disinvoltura che le toglieva qulsiasi significato intenzionale e che dissimulava perfettamente l’ansia colla quale la fanciulla l’aveva osata e ne attendeva la risposta.
— lo non mi potrei certo annoiare con voi, cara amica, ma sarei troppo egoista se vi imponessi una «solitudine a due» per l’ultima vostra serata qui. Molto più che non mi sono mai accorto d’essere un brillante conversatore.
— Io detesto la gente brillante comunque e dovunque brilli. Quanto a voi, poichè vi proponete di far quello che più mi piace, risparmiatemi il teatro, vi prego.
— Benissimo. Allora, proponete voi.
— Ecco: io proporrei di andarcene bighellonando per le strade più centrali della città. Io non l’ho veduta mai di sera perchè osavo poco avventurarmi sola nell’ignoto.
— Se lo avessi immaginato, — osservò Noris, vi avrei dato Ugo per accompagnarvi.