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ce della tempesta che egli aveva dovuto affrontare e quella della vittoria che aveva ottenuta e quella folla entusiasta acclamava già a lui come fosse stato presente e avesse potuto udirla.

L’applauso si ripetè, più insistente, irrefrenato, senza fine e altissimo quando qualcuno portò nel campo la voce che dall’osservatorio astronomico l’aereoplano era stato avvistato lontanissimo attraverso un canocchiale di lunga portata.

La notizia era stata ricevuta al telefono del campo da un piccolo giornalista il quale si accontentò di diffondere urlando a squarciagola:

— È qua! è qua!

Migliaia e migliaia di teste si rivolsero d’un colpo verso il mare, fissarono gli occhi all’orizzonte estremo, attesero con un’ansia che, davvero, diventava angoscia.

Minerva Fabbri sentì piegarsi le ginocchia per la commozione improvvisa, poi, tutto il suo spirito fu d’un tratto sollevato da un’onda d’esaltazione non provata mai.

— Viene! viene! — esclamavano le sue labbra mentre le sue mani si aggrappavano convulse al braccio di Ugo. E il giovanetto non pensava più a meravigliarsi di quella inusitata aggressione perchè non se ne rendeva più conto.

Come quello di Minerva, il suo spirito non era più che un’attesa.

Veniva, Noris, veniva!

Qualcuno doveva averlo avvistato già sul mare perchè le sirene dei mille vaporetti, delle lancie, delle maggiori navi, che solcavano lo specchio d’acque prospiciente il campo d’atterramento, già lo salutavano e lo acclamavano coll’acuta voce alta e triste, piena d’angoscia e di nostalgia che formava un contrasto non lieve colla vivacità dei pavesi tutti alzati.

Dal campo all’hangar, era un correre ed accorrere frettoloso di commissari, di meccanici, di giornalisti, di fotografi. Numerosi agenti di polizia facevano sgombrare lo spazio immenso dove l’aviatore avrebbe dovuto scendere. Quattro enormi palloni frenati, levati altissimi nel-