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solitudine arcana — parlavano al suo spirito il linguaggio delle cose eterne.

Adesso, alla prima stella comparsa sul suo orizzonte, innumeri altre erano seguite. Il cielo era tutto trapunto delle infinite gemme palpitanti sopra l’angoscia e la miseria della terra.

Noris si immerse nella contemplazione delle stelle: mai ne aveva viste tante perchè mai il suo sguardo aveva abbracciato un orizzonte così grandioso. E mai il firmamento gli era parso così vicino come in quella notte meravigliosa.

Le belle stelle! parevano così simili all’osservazione superficiale ed erano invece così diverse l’una dall’altra! ciascheduna pareva avere una fisionomia propria timida o provocante, umile e modesta o superba e sfolgorante, buona o minacciosa. Sì, c’erano anche le stelle che sapevano di minaccia: avevano una luce rossastra che rifletteva bagliori di sangue. C’erano invece quelle limpidissime, dalla luce che pareva argento liquido e altre dorate come un minuscolo sole e altre azzurrognole come un zaffiro stemperato in un raggio lunare. C’erano le piccolette raggruppate in piccoli arcipelaghi siderei e le solitarie e grandiose come soli sfolgoranti e le maestose avvicinate in costellazioni regolari e quelle che palpitavano violente come immensi cuori sollevati da una fiamma e quelle che guizzavano mostrando sfaccettature di brillanti vivi e quelle ancora che ardevano immote o quasi come lontane lampade votive.

Dio, che meravigliosa cosa erano le stelle e come pochi uomini le conoscevano! A Noris pareva ai scoprirle allora per la prima volta o almeno di comprenderne allora, per la prima volta, tutta la bellezza e tutto il mistero.

O forse erano quelle le stelle dell’Oceano contese allo sguardo degli uomini, note solo ai naviganti che da secoli ne proclamavano la magnificenza e la poesia.

No. Egli rammentava adesso d’aver contemplato un orizzonte simile a quello, al disopra del-