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te, la portata della sua resistenza e quella dell’aviatore che lo pilotava. Tutte le affrontava Noris colla serena imperturbabilità che nessuna cosa valeva a smentire.

Se il piccolo uomo che ora montava sul velivolo rispondendo con un sorriso buono agli auguri degli amici, fosse uscito vittorioso dal cimento formidabile non sarebbe stato eccessivo battezzarlo eroe.

Ma nessuno fra quanti lo salutavano aveva la persuasione che egli avrebbe trionfato. Dauro stesso aveva la fede ma non aveva la speranza: era sicuro dell’apparecchio, ma non altrettanto sicuro della resistenza della fibra di Noris. Certo se la cosa era umanamente possibile, Noris l’avrebbe compiuta. La sua fede era ancora condizionale.

Il dubbio era più vivo negli altri che non avevano, come il giovane ingegnere, ragione di credere nella sicurezza dell’apparecchio e proporzionata al dubbio era la loro trepidazione.

Mentre stringeva la mano dell’amico, Paolo Adelio pensava:

— Non ti rivedrò più, — e una commozione invincibile alterò a un tratto il suo maschio viso.

Invece, Noris disse tranquillo così a lui come a Lorenzo Rolla:

— Arrivederci!

E alzò la mano accennando ai meccanici.

Il velivolo fuggì via velocissimo travolgendo nel rombo del motore il grido di saluto e di augurio uscito irrefrenabile da tutti i cuori, da tutte le labbra, in quell’istante che segnava un destino: poi si staccò dal suolo seguendo la manovra solita, compì un largo girò sull’isola e fu sul mare, librato fra due infiniti, colla prora rivolta tutta ad occidente sulla linea retta ideale in capo alla quale era la meta.

Erano le cinque di sera, e il sole, alto ancora sull’orizzonte, pareva segnare la via al velivolo in un solco di fulgore e di gloria. Noris aveva scelto quell’ora prossima al tramonto per affron-