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nerva Fabbri? Non osava sperarlo. Dagli amici di Noris e della fanciulla, egli aveva saputo la vana corte e la passione ugualmente vana che numerosi adoratori le avevano tributato, la freddezza altera di lei, la sua impassibilità glaciale, la sua strana vita. Certo sarebbe stata una grande e meravigliosa vittoria giungere a piegare quell’orgoglio, ad accendere quel marmo, ad animare quella statua: ma Giorgio Dauro non era sufficientemente vano per illudersi che proprio lui avrebbe compiuto il miracolo.

Quel giorno, egli stesso s’era recato ad aprire alla fanciulla il cancello dell’aereodromo perchè Ugo era assente e gli altri meccanici occupati con Noris ed era stato appunto nel fornirle le ragioni del fatto insolito che il discorso s’era avviato sul grande avvenimento.

— Badate, — aveva detto Dauro alla fanciulla che si dirigeva verso l’hangar, — non c’è nessuno là.

— Nemmeno un meccanico?

— Nemmeno: sono tutti nell’officina con Noris.

— Ah! grande lavoro, dunque?

— Sì, se tutto va bene, domani si monta il motore.

Un lampo di gioia brillò negli occhi della fanciulla.

— E le prove? — ella domandò.

— A prestissimo.

— Qui?

— No: sapete l’idea di Noris: in Inghilterra.

— Cosicchè noi non sapremo nulla di nulla fino a prove finite.

— Dite piuttosto fino a volo compiuto.

— Contate dunque di tener segrete anche le prove?

— Segretissime.

— Che febbre! — mormorò Minerva Fabbri, come parlando fra sè.

— Febbre di che, se è lecito?

— Di sapere, di vedere, di aver finito.

— Anche voi la sentite?

— Vi meraviglia? Vi giuro che vivo queste ore