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LXXXVII
Si lusinga d’essersi liberata da Amore.
Prendi, Amor, i tuoi strali e la tua face,
ch’io ti rinunzio i torti e le fatiche,
le voglie a’ propri danni sempre amiche,
la guerra certa e la dubbiosa pace.
Trova un novo soggetto e piú capace,
cui ’l tuo foco arda e la tua rete intriche,
ch’io per me non vo’ piú che mi si diche:
— Questa per altri indarno arde e si sface.—
Io son dal grave essilio tuo tornata,
e son resa a me stessa, e non men pento,
mercé di lui che m’ha la via mostrata.
E ne’ miei danni ho pur questo contento,
ch’almen, s’io fui da te sí mal trattata,
alta fu la cagion del mio tormento.
LXXXVIII
La sua pace è turbata di nuovo: sará ella mai resa a se stessa?
Lassa, chi turba la mia lunga pace?
chi rompe il sonno e l’alta mia quiete?
chi mi stilla nel cor novella sete
di gir seguendo quel che piú mi sface?
Tu, Amore, il cui strale e la cui face
ogni contento uman recide e miete,
tu ber mi desti del tuo fiume Lete,
che piú mi nòce, quanto piú mi piace.
Ahi, quando fia giamai ch’un giorno possa
voler col mio voler, resa a me stessa,
del grave giogo periglioso scossa?
Quando fia mai che la sembianza impressa
dentro a le mie midolle e dentro a l’ossa
mi smaghi Amor, e’ miei martír con essa?