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LXXV

Cosí lo rivegga, prima di morire!

     Fa’ ch’io rivegga, Amor, anzi ch’io moia,
gli occhi, che di lontan chiamo e sospiro,
fuor de’ quai ciò ch’io veggio e ciò ch’io miro
con questi miei mi par tenebre e noia.
     Quante fiamme or vome Etna, arser giá Troia
in quell’incendio dispietato e diro,
a petto a le mie fiamme, al mio martiro,
son poco o nulla, anzi son pace e gioia.
     E, se ’l sol de le luci mie divine,
chi ’l crederia? tornando non lo smorza,
sento che ’l mio incendio è senza fine.
     Oh mirabil d’Amor e nova forza!
ché dove avien ch’un foco l’altro affine,
qui solo un foco l’altro vince e sforza.


LXXVI

Nella sua lontananza, il pensiero di lui le dá forza.

     Quando talor Amor m’assal piú forte,
e ’l desir e l’assenzia mi fan guerra,
e questa e quel vorria pormi sotterra,
preda d’oscura e dispietata morte,
     io mi rivolgo a le mie fide scorte,
onde, benché lontan, virtú si sferra
tal che la nave mia, che dubbiosa erra,
subito par ch’al nido si riporte;
     sí che quanto ho d’Amor onde mi doglia,
tanto ho onde mi lodi, poi ch’io sento
ch’una sol man mi leghi, una mi scioglia.
     O gioia amara, o mio dolce tormento,
io prego il ciel che mai non mi vi toglia,
e sia ’l mio stato or misero, or contento.