ch’amaro assenzio e fele
dopo quel dolce cibo
mi fe’, lassa, gustare
in tempre aspre ed amare.
O duro tòsco, che ’n amor delibo,
perché fai sí dogliosa
la vita mia, che fu giá sí gioiosa?
Almen, poi che m’è lunge
il mio terrestre dio,
che sí lontano ancor m’apporta guai,
il duol che sí mi punge
non mandasse in oblio,
e l’udisse ei, per cui piansi e cantai:
men acerbi i miei lai,
men cruda la mia pena,
men fiero il mio tormento,
che giorno e notte sento,
fôra per la sua luce alma e serena;
e sariami ’l dispetto
dolce sovra ogni dolce alto diletto.
S’egli è pur la mia stella,
e se s’accorda il cielo,
ch’io moia per cagion cosí gradita,
venga Morte, e con ella
Amor, e questo velo
tolgan, ed esca fuor l’alma smarrita;
che, da suo albergo uscita,
volerá lieta in parte,
dove s’avrá mercede
de la sua viva fede,
fede d’esser cantata in mille carte.
Ma, lassa, a che non torna
chi le tenebre mie con gli occhi adorna?
Se tu fossi contenta,
canzon, come sei mesta,
n’andresti chiara in quella parte e ’n questa.