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i - terze rime 351

     496qualunque in monte o in piano animai giace,
selvaggio errante, liberale dono
di se stesso a costui contento face;
     499e le mandre, che quivi in copia sono,
e tutto quel, che la terra produce,
son di lui molto piú ch’io non ragiono.
     502Qui la natura carca si riduce,
per dar del suo tesoro a lui tributo,
che da l’Indo e’l Sabeo quivi traduce:
     505non fosse questo ben da lui goduto,
certo è che in tanta copia mai dal cielo
non fora ad alcun altro pervenuto.
     508A costui cede il gran signor di Deio,
piú del suo chiaro, del valor il lume,
cui nube non offusca od altro velo;
     511e di dolce eloquenzia il puro fiume
a lui dona di Giove il fedel messo,
ch’ai cappello ed ai piè porta le piume.
     514A questo, a cui comandar è concesso
agli elementi, che in quel suo soggiorno
oprano quanto è piú gradito ad esso,
     517andai, dal gran desio tirata, un giorno:
non per error di via, né ch’io passassi
quindi avante d’altronde al mio ritorno;
     520ma d’Adria mossi a quest’effetto i passi,
né interromper giamai vòlsi il viaggio,
perch’a l’andar via pessima trovassi.
     523Di questo mio signor cortese e saggio,
nel sentier aspro, mi fu grata scorta
de la virtute il sempiterno raggio:
     526da cosí chiaro e dolce lume scorta,
la strada, ch’ai desio lunga sembrava,
al disagio parea commoda e corta.
     529La difficoltá grande superava
d’ogni altra cosa sol con la speranza,
che di veder uom si gentil portava.