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i - terze rime 327

     28Ma saria forse un espresso avvilirmi,
far soggetto capace del mio sdegno
chi non merta in pensier pur mai venirmi:
     31un uom da nulla, e non sol vile, e indegno
che da seder si mova a lui pensando
qualunque ancor che pigro e rozzo ingegno.
     34E pur d’ira m’infiammo, rimembrando
la villania da lui fatta a se stesso,
di doverla a me far forse stimando.
     37Inescusabil fallo vien commesso
da chi dice d’alcun mal in sua assenza,
s’anco ver sia quel che vien detto espresso;
     40perché in ciò l’uom dimostra gran temenza,
e par che ’n quella vece non ardisca
dir il medesmo ne l’altrui presenza.
     43Ma poi, se di menzogne si fornisca
e, nel contaminar l’onore altrui,
con frode e infamia contra ’l ver supplisca,
     46ben certamente merita costui
cancellarsi del libro de’ viventi,
sí che ’l suo nome ad un péra con lui.
     49Oh, se le rane avesser unghia e denti,
come sarian, se drittamente addocchio,
talor piú de’ leon fiere e mordenti!
     52Ma poi, per gracidar d’alcun ranocchio,
di gir non lascia a ber l’asino al fosso,
anzi drizza a quel suon l’orecchio e l’occhio.
     55Se un ser grillo, a dir mal per uso mosso,
de la sua buca standosi al riparo,
m’ha biasmato in mia assenzia, io che ne posso?
     58E se, tratte a quel suon, quivi n’andáro
molte vespe e tafani, e per tenore
di quel suon roco in compagnia ruzzáro,
     61non patisce alcun danno in ciò ’l mio onore,
e, quanto aspetta a me, piú tosto rido;
ma de l’altrui sciocchezza ho poi dolore.