Pagina:Stampa, Gaspara – Rime, 1913 – BEIC 1929252.djvu/320

314 veronica franco

     208sí che, prima ch’a morte amando io vegne,
quella mercé da voi mi si conceda,
che sgombri ’l pianto ond’ho le luci pregne.
     211Lassa, che s’un nemico a l’altro chieda
al suo bisogno aiuto, ei gli vien dato,
ché la virtú convien che gli odii ecceda;
     214ed io creder devrò ch’aspro ed ingrato
esser mi debba il mio signor diletto,
perch’ei sia forse d’altra innamorato?
     217Oimè! che, d’altra standosi nel letto,
me lascia raffreddar sola e scontenta,
colma d’affanni e piena di dispetto:
     220altra ei fa del suo amor lieta e contenta,
e del mio mal con lei fors’ancor ride,
che vanagloriosa ne diventa.
     223Quanto per me si lagrima e si stride,
dolce concento è de le loro orecchie,
da cui ’l mio amor negletto si deride.
     226Cosi convien che sempre m’apparecchie
a soffrir nuovi di fortuna colpi,
e che ’n novello strazio alfin m’invecchie.
     229Né però avien che del mio affanno incolpi
chi piú devrei; ned in mercé mi valse,
quanto in ciò piú credei, che piú ’l discolpi.
     232Oimè, che troppo duro Amor m’assalse.
poi che, per farmi di miseria essempio,
m’insidia ancor con sue speranze false.
     235Da un canto il certo mio danno contempio;
e, perché ’l duol piú nuoccia meno atteso,
di speme al van desio conforme m’empio.
     238Non fosse almen da voi medesmo offeso
l’affetto upian del gentil vostro seno,
ne Tessermi il soccorso, oimè, conteso.
     241D’ogni mia avversitá mi duol via meno,
che di veder ch’a voi s’ascriva il fallo
di quanto in amar voi languisco e peno.