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i - terze rime 309

     28e, poi ch’ai terren vostro uscio pervengo,
porgo i miei preghi a l’ostinate porte,
né di basciar il limitar m’astengo.
     31—Dch siatemi iti amor benigne scorte:
apritemi ’l sentier del mio ben chiuso,
del notturno mio error per uso accorte.
     34Di letal sonno e tu, custode, infuso,
desto al latrar de’ tuoi vigili cani,
non far il prego mio vano e deluso:
     37dch, pietoso ad aprirmi usa le mani,
cosi i ceppi servili aspri dal piede
del continuo ti stian sciolti e lontani! —
     40Ma ch’è quel, che da me, lassa, si chiede?
— Vattene in pace — il portinaio dice, —
ché le notti il signor qui non risiede;
     43ma, del suo amor a far lieta e felice
un’altra donna, con lei dorme e giace,
e tu invan qui ti consumi, infelice.
     46Vattene, sconsolata; e, s’aver pace
non puoi, pur con saldo animo sopporta
quel ch’ai destino irrevocabil piace. —
     49Talor, per gran pietá di me, la porta
geme in suon roco, come quando è mossa,
nei cardini, a serrarsi o aprir, distorta;
     52ed io, quindi col piè debil rimossa,
ne le braccia di tal, che m’accompagna,
del viver cado poco men che scossa.
     55II suo pianto dal mio non discompagna
quel mio fedel, ch’è meco, e d’un tenore
meco del mio martir grida e si lagna.
     58Dure disagguaglianze in aspro amore,
poi ch’a chi m’odia corro dietro, e fuggo
da chi de l’amor mio languisce e more!
     61E cosí ad un me stessa ed altrui struggo,
e ’l sangue de le mie e l’altrui vene
col mio grave dolor consumo e suggo: