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i - terze rime 269

     64il ciel, che in Adria piange, e ride altrove,
lá ’ve la dolce mia terrena dea
grazia e dolcezza dal bel ciglio piove,
     67e quel ricetto estremamente bea,
dov’ella alberga, per destin felice
d’un altro amante e per mia stella rea.
     70Altri del mio penar buon frutto elice,
del mio bel sol la luce altri si gode,
ed io qui piango nudo ed infelice.
     73Ma, s’ella ’l mio dolor intende et ode,
perch’a levarmi l’affamato verme
non vien dal cor, che si ’l consuma e rode?
     76E, se non 11l’ode, o mie speranze inferme!
poi che ’l ciel chiude a’miei sospir la strada,
contra cui vano è quanto uom mai si scherme.
     79Ma tu si aventurosa alma contrada,
ch’a pena un tanto ben capi e ricevi,
qual chi confuso in gran dolcezza cada,
     82d’Adria i diletti, a fuggir pronti e lievi,
mira; e dal nostro danno accorta stima
il volar de’ tuoi di fugaci e brevi.
     85Or ti vedi riposta ad alta cima,
né pensi forse come d’alto grado
le cose eccelse la fortuna adima:
     88stabil non è di qua giú ’l bene, e rado
piú d’un momento dura, e ’l pianto e ’l duolo
trova per mezzo l’allegrezza il guado.
     91Ma pur felice aventuroso suolo,
che quel momento al goder nostro dato
possiedi un ben cosí perfetto e solo.
     94Pian, poggio, fonte e bosco fortunato,
ch’a un guardo, a un sol toccar del vago piede
forma prendete di celeste stato,
     97l’alto e novo miraeoi, che ’n voi siede,
a farvi basti, in tanto spazio, eterno
tutto quel ben, ch’ai suo venir vi diede;