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i - terze rime 239

     64Signor, l’esser beffato è cosa dura,
massime ne l’amor; e chi noi crede
ei stesso la ragion metta in figura.
     67Io son per caminar col vostro piede,
ed amerovvi indubitatamente,
si com’al vostro merito richiede.
     70Se foco avrete in sen d’anior cocente,
io ’l sentirò, perch’accostata a voi
d’ardermi il cor egli sará possente:
     73non si ponno schivar i colpi suoi,
e chi si sente amato da dovero
convien l’amante suo ridamar poi;
     76ma ’l dimostrar il bianco per lo nero
è un certo non so che, che spiace a tutti,
a quei, ch’anco han giudicio non intiero.
     79Dunque da voi mi sian mostrati i frutti
del portatomi amor, ché de le fronde
dal piacer sono i vani uomini indutti.
     82Ben per quanto or da me vi si risponde,
avara non vorrei che mi stimaste,
ché tal vizio nel sen non mi s’asconde;
     85ma piaceriami che di me pensaste
che ne Tamar le mie voglie cortesi
si studian d’esser caute, se non caste:
     88né cosí tosto d’alcun uom compresi
che fosse valoroso e che m’amasse,
che ’l cambio con usura ancor gli resi.
     91Ma chi per questo poi s’argomentasse
di volermi ingannar, beffa se stesso;
e tale il potria dir, chi ’l domandasse.
     94E però quel, che da voi cerco adesso,
non è che con argento over con oro
il vostro amor voi mi facciate espresso;
     97perché si disconvien troppo al decoro
di chi non sia piú che venal, far patto
con uom gentil per trarne anco un tesoro.