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200 | appendice |
VI
Invano ella rimpiangerá poi di non averlo riamato.
Se v’accorgeste del fuggir de l’ore,
e come il tempo con l’usato artiglio
crespar le guance e ’l candido e vermiglio
suol tramutar in pallido colore,
e ’l vago agli occhi, al viso tôr l’onore,
usareste altro modo, altro consiglio,
madonna, e con sereno e lieto ciglio
omai trareste me di doglia fore.
Deh, non v’insuperbite a l’esser bella.
Cadeno i gigli; e voi direte alfine,
dannando il giovenile orgoglio altero:
— Lassa, quanto mutata io son da quella!
O saggio amante! ahi bel perduto crine!
Invan fui bella, e invan muto pensiero.
VII
La pietá di lei gli dará animo a celebrarla.
Donna, la cui beltá pur non pareggia
alcun pensier, non che l’aguagli stile,
a voi ne vengo riverente, umíle,
come chi di gran mal soccorso cheggia;
e prego omai vostra pietá s’aveggia
del duol, che fammi a morte esser simíle,
e, come bella, siate anco gentile,
sí che d’ogni mio danno il fin si veggia.
Potrò poi dir delle dorate chiome,
di quei vostri occhi dolcemente accensi,
e del bel che mi prese io non so come;
ch’ora gli affanni e i miei martíri intensi,
quando vorrei cantar il vostro nome,
confondeno il pensier, pèrdeno i sensi.