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ii - rime varie | 183 |
CCCX
Rimorsi e pentimento religioso.
Dunque io potrò, fattura empia ed ingrata,
amar bellezza umana e fral qual vetro,
e l’eterna e celeste lasciar dietro
de la somma Bontá, che m’ha creata,
e poi m’ha da la morte liberata
e da l’inferno tenebroso e tetro,
se del fallir mi pento qual fe’ Pietro,
poi che tre volte giá l’ebbe negata?
Dunque io potrò veder di piaghe pieno
il mio Fattor, per me sospeso in croce,
e d’amor e di zel non venir meno?
Dunque non drizzerò pensieri e voce,
ogn’altro affetto uman spento e terreno,
solo a’ suoi strazi, a la sua pena atroce?
CCCXI
«Dolce Signor, non mi lasciar perire!»
Mesta e pentita de’ miei gravi errori
e del mio vaneggiar tanto e sí lieve,
e d’aver speso questo tempo breve
de la vita fugace in vani amori,
a te, Signor, ch’intenerisci i cori,
e rendi calda la gelata neve,
e fai soave ogn’aspro peso e greve
a chiunque accendi di tuoi santi ardori,
ricorro; e prego che mi porghi mano
a trarmi fuor del pelago, onde uscire,
s’io tentassi da me, sarebbe vano.
Tu volesti per noi, Signor, morire,
tu ricomprasti tutto il seme umano;
dolce Signor, non mi lasciar perire!