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i - rime d'amore | 11 |
XII
Si duole d’aver tardi appreso ad amarlo.
Deh, perché cosí tardo gli occhi apersi
nel divin, non umano amato volto,
ond’io scorgo, mirando, impresso e scolto
un mar d’alti miracoli e diversi?
Non avrei, lassa, gli occhi indarno aspersi
d’inutil pianto in questo viver stolto,
né l’alma avria, com’ha, poco né molto
di Fortuna o d’Amore onde dolersi.
E sarei forse di sí chiaro grido,
che, mercé de lo stil, ch’indi m’è dato,
risoneria fors’Adria oggi, e ’l suo lido.
Ond’io sol piango il mio tempo passato,
mirando altrove; e forse anche mi fido
di far in parte il foco mio lodato.
XIII
In lode del suo signore.
Chi dará penne d’aquila o colomba
al mio stil basso, sí ch’ei prenda il volo
da l’Indo al Mauro e d’uno in altro polo,
ove arrivar non può saetta o fromba?
e, quasi chiara e risonante tromba,
la bellezza, il valor, al mondo solo,
di quel bel viso, ch’io sospiro e còlo,
descriva sí, che l’opra non soccomba?
Ma, poi che ciò m’è tolto, ed io poggiare
per me stessa non posso ove conviene,
sí che l’opra e lo stil vadan di pare,
l’udranno sol queste felici arene,
questo d’Adria beato e chiaro mare,
porto de’ miei diletti e di mie pene.